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MA FINO A QUANDO?

Le conseguenze derivanti dalla
crescita del debito pubblico

Abbiamo già visto in precedenza quanta incidenza abbia il debito pubblico sul totale della ricchezza pubblica. Il Italia il problema è, poi, particolarmente rilevante, visto le dimensioni del nostro debito pubblico.

Proviamo ad andare oltre per cercare una risposta alla domanda riguardante quale fascia sociale sia la più colpita dalla presenza di un debito pubblico così elevato e se questo valore sia, di per sé, portatore o meno di disuguaglianze.

Il saldo pubblico è dato dalla differenza tra entrate (gettito fiscale) e uscite (spesa pubblica); se tale saldo è negativo, si parla di deficit (o disavanzo); se è positivo, si parla di surplus (o avanzo); se, infine, è pari a zero, si parla di pareggio di bilancio.

La spesa pubblica è costituita dagli acquisti di beni e servizi da parte del settore governativo o statale e dai trasferimenti alle amministrazioni locali, alle imprese e ai singoli (sotto forma di retribuzioni, pensioni e altri tipi di sussidi, come quelli di disoccupazione). A fronte di tali uscite lo Stato incassa un cosiddetto gettito fiscale dalle imposte di sua competenza, quali le imposte dirette, come quelle sul reddito, e le imposte indirette, come quelle che colpiscono l’acquisto di beni e/o servizi.

Si definisce saldo primario la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi, ossia quando sono escluse dal computo delle uscite le spese per interessi sul debito pubblico.

Parliamo, infine, di debito pubblico quando ci riferiamo al debito cumulato dello Stato nei confronti di altri soggetti economici nazionali o esteri – quali individui, imprese, banche o Stati esteri – che hanno sottoscritto titoli di credito emessi dallo Stato destinati a coprire il fabbisogno di cassa statale. È altresì il debito pubblico quello esposto nel bilancio dello Stato ed è ottenuto sommando il saldo pubblico annuale al debito pubblico pregresso.

È chiaro, quindi, che aumentando il debito pubblico complessivo, aumenterà il capitale preso in prestito dai sottoscrittori dei titoli pubblici, che dovrà essere rimborsato secondo le scadenze naturali dei titoli, oltre al pagamento degli interessi annuali previsti dal piano di rimborso delle singole emissioni. Gli interessi dipendono esclusivamente dall’ammontare dei debiti e dai rispettivi tassi d’interesse nominale, senza alcuna interferenza derivante dai tassi di mercato che possono essere soggetti a interventi terzi (vedi appunto il QE) oppure alle pressioni dei creditori (che, ritenendo fragile l’equilibrio economico di un emittente, tendono a disinvestire il proprio capitale da quel determinato titolo). Quindi più alto è il debito pubblico e più alti sono i tassi di interesse nominali, maggiore sarà il flusso di spese per interessi e maggiore sarà la differenza tra saldo pubblico totale e saldo pubblico primario.

Vediamo, ora, come si sono sviluppate le componenti del debito pubblico nel tempo. I dati sono stati forniti dall’Osservatorio CPI dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I valori numerari sono tutti espressi in milioni di euro, al cambio ufficiale lira/euro di 1936,27; i prezzi sono stati armonizzati al 2015.

Saldo primario

Cominciamo dal saldo primario, vale a dire dalla differenza tra entrate e uscite pubbliche, senza considerare la spesa per interessi. I valori della lunga serie sono diventati significativi solo dopo la seconda guerra mondiale; fu il 1944 il primo anno in cui il deficit superò i 100 milioni di euro, mentre per diversi periodi il saldo fu positivo (dal 1957 al 1963, dal 1992 al 2008, dal 2010 al 2019), determinando un surplus primario. Il surplus primario record avvenne nel 1997 con 67 miliardi di euro, pari al 6,2% del PIL. Significativi sono i dati del rapporto del saldo primario rispetto al PIL, che, naturalmente, fu ampiamente negativo nel periodo delle due guerre (con una media del 22,5% annuale nel periodo 1914/18 e del 20,6% nel periodo 1940/45). Il dato stimato del 2020 torna ad essere particolarmente negativo sia in valore (120 €Mld), sia in rapporto al PIL (-7,3%).

Saldo primario / PIL

A questo punto diventa naturale valutare sia gli interessi pagati annualmente per remunerare il debito contratto negli anni precedenti sia la loro incidenza sul PIL. Possiamo notare che questa voce è esplosa solo a partire dagli anni cinquanta del Novecento ed ha cominciato a calare solo a partire dal 1997, in fase di convergenza dei conti pubblici in vista dell’avvio della moneta unica europea, contribuendo in maniera significativa alla convergenza dei tassi d’interesse verso le economie guida europee.

Spesa per interessi

Spesa per interessi / PIL

Sommando la spesa per interessi al saldo primario otteniamo il saldo pubblico, che potrà essere anch’esso in avanzo (surplus) o in disavanzo (deficit). Vediamo l’andamento graficamente, insieme al saldo primario per mettere in evidenza, oltre l’andamento, anche l’incidenza degli interessi sul saldo annuale dei conti pubblici.

Confronto saldo totale con saldo primario

Confronto saldo totale con saldo primario / PIL

Possiamo vedere dai grafici rappresentati nelle figure seguenti quanto sia significativa l’incidenza (o la sua mancanza) degli interessi sul saldo totale dei conti pubblici. Negli anni di alti tassi d’interesse, i conti sono sensibilmente peggiorati per la presenza di alti interessi da pagare regolarmente ai titolari dei titoli del debito pubblico. Via via che essi si sono ridotti, sia per ragioni esogene, sia per ragioni endogene, le spese per interessi sono calate, determinando anche un miglioramento nel saldo pubblico totale. Naturalmente questo giocattolo che funzionava, anche se a fatica, fino al 2019, è stato rotto dalla pandemia Covid e dalle sue implicazioni economiche, determinando un peggioramento molto significativo dovuto esclusivamente al saldo primario (che è passato da +1,8% del 2019 al -7,3% stimato nel 2020, vale a dire un aggravio di circa 150 miliardi di euro in un solo anno), mentre le spese per interessi, nello stesso anno sono rimaste sostanzialmente stabili a circa 60 miliardi di euro, pari al 3,4% del PIL.

Concludiamo questa presentazione con il “totale generale” di tutte queste componenti: il saldo progressivo dei conti pubblici che, essendo strutturalmente negativo (ma anche filosoficamente non pensiamo che sia verosimile l’esistenza di uno Stato che presenti i conti pubblici complessivi in positivo, perché questo significherebbe solo una mancanza di spesa pubblica che è profondamente distante dal concetto stesso di Stato), prende il nome unico di debito pubblico.

Qui il discorso si fa più articolato. Come possiamo vedere dal grafico della figura, il valore del debito pubblico italiano è solo salito, con costanza negli anni, superando presumibilmente il livello dei 2.600 miliardi di euro nel corso del 2020; sembra quasi che non ci siano mai state soluzioni alla continuità del trend che si è sviluppato sempre nella stessa direzione a partire dalla fine della seconda guerra mondiale

Più variegate sono invece le informazioni che provengono dal grafico rappresentato nella seconda figura: il rapporto tra debito pubblico e corrispondente prodotto interno lordo non ha avuto un trend unico e definito, ma ha attraversato fasi ben differenti nel tempo. Soprassediamo sulla storia, con l’unica annotazione degna di nota rappresentata dal dato del 1919 al 1925 dove emerge un rapporto costantemente superiore al 100%, fino a toccare la punta massima del 158,9% del 1920. Dovrà passare un secolo esatto perché tale rapporto ritorni presumibilmente sugli stessi valori (valore stimato del 2020: 158%). In mezzo abbiamo assistito ad un primo ridimensionamento avvenuto tra il 1925 e il 1926 (fino al 94,5%), per poi stabilizzarsi tra il 100% e il 110% fino al 1936, scendere fino all’88% del 1940, risalire negli anni della guerra fino al 115%, per poi crollare tra il 30 e il 35% fino al 1970. Il rapporto debito/PIL rimane inferiore al 60% (limite di riferimento utilizzato dai trattati di Maastricht) fino al 1981, ultimo Governo Forlani. Seguono poi tre Governi a guida Giovanni Spadolini che, con un deficit/PIL del 10% annuale, porta il debito/PIL al 62%. Si aprono 12 anni di pentapartito, con rapporti deficit/PIL sempre superiori al 10% annuale e un debito/PIL che raggiunge nel 1994 il 120%. Sono gli anni dei Governi presieduti da Bettino Craxi (per 6 volte), Amintore Fanfani (1 volta), Giovanni Goria e Ciriaco De Mita (2 volte ciascuno), Giulio Andreotti (5 volte), Giuliano Amato (2 volte) e Carlo Azelio Ciampi (2 volte), questi ultimi due a cavallo tra la prima e la seconda repubblica. Dopodichè è cronaca. Quello che volevano qui rappresentare non è una valutazione politica, bensì solo un abbinamento tra la “Milano da bere” e i conti pubblici, in deciso e progressivo deterioramento, a volte senza controllo, ma spesso con obiettivi opachi.

Ma torniamo all’analisi delle disuguaglianze. La domanda sorge spontanea. Per dirla alla moda di Antonio Di Pietro (per restare nel periodo di mani pulite): “ma che c’azzecca il debito pubblico con le disuguaglianze”?

C’entra, c’entra eccome!! Ci sono almeno due ordini di disuguaglianze che trovano la loro origine da un debito pubblico consistente: la prima è intergenerazionale e la seconda è trasversale. Vediamole con ordine.

Pensiamo che la disuguaglianza intergenerazionale sia già ben nota a tutti; si tratta in effetti di debiti che vengono contratti da una generazione e che vengono pagati da una o più generazioni successive. Guardiamo il dato stimato di debito del 2020, stiamo parlando di qualcosa intorno ai 2.600 miliardi di euro che dovranno essere rimborsati secondo le scadenze naturali dei titoli in circolazione. Il loro costo dipende dal tasso nominale di ciascuna emissione e graverà da ora e fino alla scadenza dei singoli titoli con cedole semestrali, mentre il rimborso avverrà alla scadenza del titolo. Senza entrare nel dettaglio tecnico, possiamo però dire che il costo dei rimborsi dei titoli esistenti non dipende dai tassi di mercato, bensì dai rispettivi tassi nominali d’interesse, vale a dire dai tassi già fissati all’emissione e che resteranno invariati fintanto che la singola obbligazione rimarrà in vita prima della scadenza (vedi appunto le spese per interessi che non sono sostanzialmente cambiate nel corso del 2020). Per la verità fanno eccezione le obbligazioni “a tasso variabile” che, sui titoli pubblici, sono agganciate al costo della vita. Quello che cambia nel corso dell’anno sono le nuove emissioni, il cui tasso nominale viene fissato in linea con i tassi di mercato e nel rispetto del rating dell’emittente. Ora viviamo in un periodo di tassi molto bassi, per cui le nuove emissioni saranno poco onerose (dal punto di vista delle spese per interessi), ma, essendo cresciuto l’ammontare complessivo, i 2.600 miliardi di euro appunto, inciderà sulle future spese per interessi. Sono troppi gli aggettivi “futuri” nel nostro discorso, ma quando parliamo di obbligazioni il futuro è quasi certo e sappiamo fin da oggi a quanto ammonterà e in corrispondenza di quali date. In ogni modo, se in futuro volessimo ridurre le spese per interessi, non potendo ricorrere a tassi d’interesse inferiori, non potremmo far altro che ridurre il capitale preso a prestito, gravando così sui conti pubblici dei prossimi anni e, quindi, delle prossime generazioni.

Per quanto riguarda la disuguaglianza trasversale dobbiamo ritornare alle nozioni di base: il debito dipende dalla differenza tra attivi fiscali e passivi sociali, oltre agli acquisti di beni e servizi. Le voci principali di questi passivi sono costituite dalle retribuzioni del personale pubblico, dalle pensioni, dai sussidi di vario tipo, ma anche dai costi per la sanità, per l’istruzione, per la difesa del paese e quant’altro rientri nei compiti-tipo di uno stato. Il problema principale è che il flusso delle entrate fiscali non è alimentato dalle stesse classi sociali e nelle stesse proporzioni di coloro che godono dei servizi pubblici, compresi stipendi e pensioni pubbliche.

La disuguaglianza cresce ogni qual volta che occorra intervenire sui due flussi (di entrata e di uscita) senza curarsi delle conseguenze degli interventi. Torniamo a ragionare sul debito pubblico. Se volessimo ridurlo (così come sembra essere necessario a conclusione del periodo di eccezionale gravità che stiamo vivendo) dovremmo aumentare le entrate e/o ridurre le uscite. Ma aumentare le entrate significa far pagare più imposte, dirette o indirette esse siano; occorre stabilire quali categorie di cittadini debbano pagare questo incremento di imposte. È vero che gli obiettivi dichiarati a monte dei nuovi incrementi di debito sono quelli di rilanciare una ripresa economica che, facendo lievitare la creazione di nuova ricchezza, possa determinare nuove entrate fiscali attraverso imposte dirette e/o indirette, consentendo così la riduzione del debito pubblico complessivo attraverso una mancato rinnovo delle obbligazioni in scadenza, ma è altrettanto vero che l’esperienza che abbiamo vissuto per decenni è sempre stata simile: aumentiamo la spesa pubblica oggi per rilanciare l’economia che, da sola, consentirà una riduzione del debito cumulato domani. Forse sarebbe stato meglio parlare di “un domani” generico, perché pressoché mai la promessa si è avverata.

Ridurre, invece, le spese significa ridurre gli stipendi ai dipendenti pubblici, oppure ridurre le pensioni, oppure ridurre i sussidi (di disoccupazione o di cittadinanza o altri) oppure ridurre le spese per sanità (e abbiamo visto bene con quali conseguenze!!), oppure ridurre le spese per l’istruzione (e, anche qui, i tagli passati bene non han fatto di certo), oppure ridurre le spese per la difesa. Mai si è parlato di ridurre le spese inutili, anche dopo numerosi studi di spending review commissionati ma mai applicati. Cosa scegliamo? Siamo certi che i tagli dei servizi colpirebbe in modo equo tutte le classi di individui??

Ridurre, però, le spese per gli stipendi danneggerebbe probabilmente gli alti decili del gruppo più povero oppure i decili intermedi dei gruppi intermedi, così come la riduzione delle pensioni. Sarebbero fatte salve, naturalmente, quelle posizioni e quelle pensioni più consistenti. Ma quante sono realmente?

Ridurre le spese per la sanità spingerebbe tutti (coloro che se lo potessero permettere) verso la sanità privata, così come la riduzione delle spese per l’istruzione spingerebbe chi potesse permetterselo verso le scuole e le università private. Con buona pace per l’uguaglianza di opportunità di cui parleremo nella successiva parte di questo lavoro.

Sintesi: il debito pubblico, cresciuto a dismisura negli anni, oltre a creare problemi internazionali (vedi le tensioni esistenti nell’Unione con i paesi frugali), crea problemi di mantenimento, di equilibrio finanziario e di distribuzione equa dei benefici e degli oneri. Occorreva, ancor prima dell’impennata di questi ultimi quindici/diciotto mesi, intervenire in modo drastico, salvaguardando i diritti dei più fragili. Ma di questo parleremo presto.