MA FINO A QUANDO?
Le conseguenze derivanti dalla
pioggia di liquidità generata dagli interventi
delle Banche Centrali
… alias cosa hanno comportato gli interventi di QE (Quantitative Easing) avviato e gestito dalla FED (la banca centrale statunitense) e dalla BCE (la banca centrale europea) a partire dal 2009 (la FED) seguita dal 2011 e poi, rettificata dal 2015 dalla BCE?
Il concetto è alquanto semplice: una banca centrale ha come compito specifico quello di gestire la politica monetaria del suo paese, manovrando i tassi d’interesse che costituiscono il prezzo al quale concedono liquidità alle banche per archi temporali assai ridotti (da overnight e pochi giorni). Ma questa è teoria e storia. Gli interventi delle grandi banche centrali, avvenuti già alla fine degli anni dieci del terzo millennio, hanno mutato i concetti classici dell’intervento di una banca centrale per allargarlo, al fine di dare un sostegno concreto ai mercati ed alle economie in difficoltà. Siamo nel 2008 e la crisi generata dal default della Lehman Bros sta avendo ripercussioni importanti ed imprevedibili sulla componente finanziaria delle principali economie mondiali, dimostrando, da una parte, la finanziarizzazione sempre più spinta di tutte le economie più avanzate e, dall’altra, l’incapacità di controllo da parte delle banche centrali dell’operatività iperspeculativa delle grandi banche d’investimento. Il pericolo paventato era quello di una nuova grande recessione, sul modello di quanto avvenne nel 1929. In quell’occasione le FED ritenne ovvia una gestione rigida del sistema monetario, drenando liquidità e amplificando, di conseguenza, le difficoltà dell’economia statunitense. Nel 2008, invece, la FED decise di invertire il suo intervento e inondare il mercato di liquidità, seguendo un percorso classico di acquisto di obbligazioni sul mercato secondario.
L’intervento della FED era orientato all’emissione di nuova liquidità nel sistema, realizzata con l’acquisto di titoli di stato (poi allargati anche ad altri titoli finanziari); questo intervento determinò l’aumento del prezzo di mercato delle obbligazioni (per eccesso di domanda) al quale corrispose la riduzione dei tassi di rendimento (operatività che supportava il mantenimento dei tassi d’interesse a livello stabilito, riducendo il costo per l’emittente). Nel caso in esame il fallimento di Lehman Bros stava generando un effetto a catena su tutte le altre obbligazioni finanziarie, procurando perdite agli investitori e incrementi di costi agli altri emittenti a causa dell’aumento dei tassi di interesse richiesti dal mercato. L’intervento della FED tranquillizzò, invece i mercati, che diedero fiducia alla scelta, accogliendo di buon grado il beneficio di tanta liquidità immessa dalla banca centrale e di utili generati dai tassi d’interesse in calo.
Il QE della FED, iniziato nel 2009 sotto la guida di Ben Bernanke fino al 2014 e proseguito da Janet Yellen dal 2014 al 2018, continua ancora sotto la guida di Jerome Powell.
Il percorso seguito dalla BCE è stato del tutto simile; partito nel marzo 2015, aveva l’obiettivo dichiarato di riportare l’inflazione intorno, ma non superiore, al 2% e prevedeva l’acquisto mensile di 60 miliardi di euro di titoli di stato o delle istituzioni europee fino a settembre 2016. All’epoca era governatore Mario Draghi. Vista la situazione critica in cui versavano molti paesi dell’Unione, la BCE prorogò questa attività più volte e continua, ancor oggi, sotto la guida di Christine Lagarde (dal novembre 2019).
In teoria i benefici dichiarati del QE dovevano essere doppi: da una parte l’immissione di nuova liquidità nel sistema del credito che doveva trasferirlo, a tassi contenuti e controllati, alla propria clientela per le operazioni tipiche di finanziamento (mutui o altre forme di prestito), determinando così una riduzione del valore reale dei debiti delle famiglie verso le banche e un conseguente aumento della propensione alla spesa, che avrebbe dovuto portare ad un aumento netto dei consumi, determinando così un incremento della crescita economica nazionale. Quindi, salvaguardia dei tassi d’interesse e miglioramento del livello di liquidità del sistema.
In realtà, però, sembra che il gioco abbia preso la mano dei giocatori, basti pensare alla quantità di liquidità immessa sul mercato dalle due banche centrali e dagli scarsi benefici che sono arrivati fino alla clientela finale delle singole banche.
Nella metodologia corrente, una volta che una banca centrale ha acquistato obbligazioni, le banche che vendono quelle obbligazioni e ricevono la liquidità corrispondente hanno essenzialmente quattro possibilità:
- possono tenere per sé le nuove riserve e guadagnare interessi dalle stesse banche centrali, senza alcun effetto sull’economia reale, bensì con effetti benefici solo col proprio conto economico;
- possono prestare liquidità alla clientela per scopi produttivi, a vantaggio di una crescita futura allargata a tutto il sistema;
- possono prestare liquidità alla clientela per meri fini di consumo; in questo modo, però, questo flusso avrà un impatto sull’economia a breve termine a danno degli equilibri futuri che saranno intaccati dal debito che dovrà essere restituito;
- possono prestare liquidità agli speculatori, permettendo loro di aumentare la leva sui propri investimenti, moltiplicando così i loro guadagni futuri.
Nella realtà dei fatti, la liquidità immessa dalla banche centrali, sotto la guida di Bernanke/Yellen e di Draghi, è finita in tutti e quattro i rivoli, ma è stata soprattutto la prima e la quarta alternativa a drenare maggiori risorse, con ampi benefici per i bilanci delle banche e degli speculatori, che hanno approfittato dei tassi debitori prossimi allo zero per aumentare la massa investita nei mercati azionari, determinando, per eccesso di domanda, la più grande bolla speculativa della storia finanziaria. Illuminante è la citazione di Forbes del 31 agosto 2020, secondo la quale solo il 14% della popolazione americana possiede azioni che influenzano la loro ricchezza finanziaria. Il 52%, comprensivo di quel 14%, possiede azioni tramite i piani pensionistici 401k, i cui vantaggi derivanti dall’aumento dei prezzi delle azioni non sono accessibili fino al pensionamento del cliente. Circa la metà della popolazione statunitense non riceve alcun vantaggio diretto dall’aumento dei prezzi delle azioni.
Tiriamo dunque le somme di questa lunga riflessione. I compiti delle banche centrali riguardano la regolamentazione della moneta, il controllo del sistema creditizio e più in particolare la vigilanza sull’intero sistema bancario.
Gli interventi effettuati dalla FED e dalla BCE nel corso di questi ultimi dodici anni si sono un po’ allargati; con l’obiettivo di evitare un crollo dell’economia reale, a seguito delle crisi finanziarie, hanno adottato interventi anche “non convenzionali” per far sentire il sistema protetto. Ne è scaturito il raggiungimento dell’obiettivo prefissato, cioè quello di evitare un pesante default di alcuni emittenti pubblici (fra cui l’Italia) attraverso un serie di importanti acquisti di obbligazioni, ma con alcune conseguenze secondarie, che, però, non sono state insignificanti e indolori. La prima riguarda il raggiungimento e il mantenimento nel tempo di tassi d’interesse particolarmente bassi, fino ad arrivare a tassi negativi. Questa “conseguenza” del QE ha determinato a sua volta altri effetti, di cui i due principali riguardano il rapporto tra rendimenti obbligazionari e mercati azionari. I rendimenti delle obbligazioni sono molto sensibili all’andamento e alle variazioni dei tassi d’interesse; è chiaro che, in presenza di tassi d’interesse prossimi o inferiori allo zero, il prezzo di mercato delle obbligazioni tenderà al loro livello massimo. A questo punto, qual è il guadagno per l’investitore se i tassi sono nulli? E, ancora, pur accettando tassi d’interesse assai contenuti o addirittura negativi (prestiamo attenzione al fatto che tassi negativi significa che comperando obbligazioni andrò incontro ad una perdita certa in conto capitale, non ripagata dal flusso delle cedole che andrò ad incassare fino alla scadenza del titolo), il rischio sarà più alto, non fosse altro che per il fatto che manca una bilateralità di prospettive, nel senso che sarà molto più probabile un aumento futuro dei tassi d’interesse (con conseguente perdita in linea capitale) che un’ulteriore riduzione. In questo gioco perdono solo gli investitori poco informati, perché non avranno mai strumenti per una difesa efficace contro le anomalie del mercato.
Altro aspetto collaterale dei tassi bassi riguarda le azioni, o meglio la valutazione del prezzo teorico adeguato all’andamento di un’azienda. Una dei metodi per calcolare il valore teorico di riferimento è quello di attualizzare gli utili futuri attesi ai tassi di mercato. Ora, se i tassi sono assai bassi oppure addirittura negativi, il denominatore del nostro processo di attualizzazione sarà estremamente basso, facendo esplodere il valore attuale di ciascun flusso futuro atteso. Ne consegue che i tassi negativi o anche solo molto bassi determinano una iper-valutazione del valore di mercato di un’azienda, influenzando in modo significativo il suo prezzo di quotazione. Ecco, quindi, una motivazione della crescita continua e incondizionata dei mercati azionari, resa ancor più incisiva dal fatto che, in realtà, mancano effettive alternative d’investimento a tutti coloro che hanno liquidità da mettere a frutto e, a maggior ragione, se parliamo di grandi capitali.
E, ancora, la politica di grande produzione di liquidità (scritturale e non reale, perché gli acquisti di obbligazioni da parte delle banche centrali avvengono sempre e solo attraverso contabili di accredito e mai attraverso flussi di cassa) avrà anche “salvato” dal fallimento alcuni stati sovrani, ma ha anche segnato una strada che ha portato il sistema verso una iperspeculazione finanziaria, che ha soddisfatto esclusivamente le esigenze della fascia alta della distribuzione del reddito e della ricchezza.