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MA FINO A QUANDO?

L’ambiente e le sue disuguaglianze

Innanzi tutto dobbiamo ricordare che la natura è uno dei tre fattori della produzione, forse il più importante giusto perché è limitato e vivo. Importante perché, anche se continua a fornire materie prime alimentari e energetiche, non è un pozzo di San Patrizio a gettito illimitato. Questa asserzione trova una sua ragion d’essere soprattutto se ci guardiamo intorno, osservando quanto abbia già inciso la mano dell’uomo nel prevaricare i limiti naturali della natura, limiti che sono stati molto spesso superati nella logica dello “stare meglio tutti a costi contenuti”. Questa asserzione trova origine nella volontà di imporre economie di scala (quindi, aumento delle intensità di sfruttamento per ridurre i costi di produzione) all’utilizzo dei beni naturali siano essi frutto del terreno, siano essi frutto delle ricchezze naturali, siano essi mere discariche dei sottoprodotti di produzione.

Andiamo con ordine. Quando parliamo di natura, in termini economici, intendiamo tutte quelle ricchezze del nostro pianeta che ci permettono di vivere. Questo utilizzo diventa sfruttamento quando non vengono più rispettati i limiti posti dalla natura stessa, perseguendo soprattutto il fine della massimizzazione dei guadagni.

Sono tante le situazioni che dovrebbero farci riflettere a riguardo dello sfruttamento della natura e tutte queste situazioni determinano sempre e ovunque una componente importante di disuguaglianze tra chi sfrutta la natura, raccogliendo più del dovuto (si pensi alle coltivazioni intensive e all’uso scriteriato di pesticidi e antibiotici) oppure oltraggiandola oltre il consentito (si pensi alle scorie inquinanti depositate qua e là per il mondo, all’inquinamento di terra, di mare e di aria, alla deforestazione dilagante, all’estrazione scriteriata dei beni del sottosuolo) e coloro che ne subiscono le conseguenze (anche qui i casi sono tanti e di diverso tipo, dalle conseguenze climatiche, al processo di inaridimento fino alla desertificazione del territorio,  all’inquinamento del suolo e del sottosuolo) che sempre, ma proprio sempre, sono diversi da coloro che determinano le conseguenze. Cosa c’è di più disuguale che cogliere forzatamente i benefici di qualcosa e lasciare ad altri quello che rimane e gli scarti?

E poi arrivò il Covid-19 e tutto cambiò. Forse! Nel senso che l’uomo di dura cervice non è quello che subisce le conseguenze, ma quello che le procura e che dovrebbe rinunciare ai proprio benefici derivanti da uno sfruttamento scriteriato delle risorse naturali. Interessante è l’articolo “Siamo spacciati? Il legame tra sfruttamento della natura e epidemie” apparso Salute e Società il 9 settembre 2020 a firma Marco Cedolin, che intervista la giornalista scientifica Eliana Liotta e il virologo Massimo Clementi.

Nel corso dell’ultimo secolo l’impatto dell’attività umana nei confronti del pianeta in cui viviamo, che è la nostra casa, si è fatto progressivamente sempre più devastante. L’inquinamento declinato in tutte le sue forme, la deforestazione, la distruzione delle biodiversità, stanno minando in profondità gli equilibri della biosfera. Fra le tante conseguenze del “passo pesante” con cui camminiamo sulla terra, incuranti di tutto ciò che ci circonda, si possono annoverare sicuramente quelle che vengono comunemente definite malattie del progresso: i tumori, il diabete, l’Alzheimer, le allergie, l’elettrosensibilità e molte altre patologie, la cui incidenza nella popolazione è cresciuta a dismisura nel corso degli ultimi decenni. Il dramma costituito dalla pandemia di Covid-19 potrebbe rappresentare la scintilla dalla quale scaturisce un ripensamento del nostro modello di sviluppo e la ricerca di un rapporto armonico con la natura, in sostituzione di quello predatorio, ma sarà davvero così? Quel che è certo è che molte patologie infettive, dall’Ebola all’Aids, fino al recente Covid-19 possono essere messe in relazione con lo stato di estrema sofferenza in cui versa il pianeta.

Qual è il link che associa la pandemia e la minaccia di future epidemie all’impatto dell’uomo sull’ambiente?

Attraversiamo l’era geologica detta Antropocene, dal greco anthropos, uomo. Perché questa è l’era in cui siamo noi, con le nostre attività, con il nostro modo di vivere a rimodellare il pianeta. E cosa succede? Per il nostro presunto benessere incendiamo foreste, impoveriamo il suolo, distruggiamo interi ecosistemi. E non c’è da meravigliarsi che la natura torni a rubare la scena. Ogni anno perdiamo un’area grande quanto il Belgio di foreste primarie. Le distruggiamo per lasciare spazio ad allevamenti intensivi, a coltivazioni di soia per il bestiame o a piantagioni per olio di palma. Ma quando annientiamo gli habitat naturali, gli animali selvatici restano senza casa e si avvicinano alle zone urbanizzate. Ecco, perturbare gli ecosistemi è come spingere i virus più pericolosi a fare il salto di specie e a passare a noi. E noi siamo sette miliardi e mezzo di persone, viviamo ammassati nelle città, ci spostiamo da un capo all’altro del globo. Quale ospite migliore per un virus che ubbidisce al principio darwiniano di fare più copie possibili di sé? È ormai ineludibile il concetto: la salute degli esseri umani è legata a quella degli animali e dell’ambiente.

Già nel 2012 uno studio svedese su Science evidenziava come negli ultimi anni si fosse assistito alla trasmissione di malattie tropicali in Europa. La febbre chikungunya è apparsa in Italia nel 2007, la dengue in Francia e Croazia nel 2010, dal 2018 a oggi si contano 1600 ammalati di encefalite virus West Nile in vari stati europei, inclusa l’Italia.

Si stima poi che una delle conseguenze dei cambiamenti climatici sia il proliferare delle zanzare. Dove ci saranno più piogge si formeranno pozzanghere e dove la siccità avrà prosciugato i letti dei fiumi resteranno ristagni d’acqua. Già oggi le zanzare si riproducono a ritmi impressionanti. Ce ne sono di temibili, perché trasportano virus o protozoi, quali quelli della malaria.

Dalle prime settimane di Covid-19, gli esperti si sono chiesti se ci fosse una correlazione tra lo smog e la letalità dell’infezione. Guarda caso, le metropoli cinesi e le città lombarde, colpite duramente, sono tra le aree più inquinate del mondo. L’ipotesi è che le polveri sottili danneggino il sistema respiratorio e lo rendano più suscettibile all’infezione e alle sue complicanze. Mentre non ci sono basi scientifiche per ritenere che il virus abbia viaggiato nel particolato o nell’aria. L’inquinamento e i cambiamenti climatici sono ritenute le minacce più allarmanti per la salute umana.

Infine, possiamo far pace con la natura? E in che modo? Il vantaggio che ci ha regalato l’evoluzione è il cervello: siamo Sapiens. Puntiamo sulla ricerca, sull’igiene, sull’innovazione, sull’alimentazione sostenibile, sull’energia pulita. E combattiamo la diseguaglianza sociale, perché la povertà, la fame e la mancanza di istruzione sono alleati delle epidemie. E poi dieta sostenibile. Non è necessario diventare vegani, si comincerebbe già a ragionare se la popolazione occidentale limitasse il consumo di carne rossa. Si ridurrebbero gli allevamenti intensivi.

Qual è stata, fino ad ora, la risposta del Sapiens? Francamente, ci sembra che sia stata una risposta più formale che sostanziale.

Guardiamo, per esempio, l’accordo di Parigi sul clima. Questo accordo è stato raggiunto il 12 dicembre del 2015 alla Conferenza annuale dell’Onu sul riscaldamento globale (Cop21), che in quell’anno si teneva nella capitale francese. È stato poi firmato il 22 aprile del 2016 nella sede Onu di New York dai capi di Stato e di governo di 195 paesi. È entrato in vigore il 4 novembre 2016, 30 giorni dopo la ratifica da parte di almeno 55 Paesi che rappresentano almeno il 55% delle emissioni di gas serra. L’Italia ha ratificato l’accordo il 27 ottobre 2016, con un voto del parlamento. I cinque punti sui quali si basa l’Accordo prevedono che i paesi firmatari si impegnino a:

  • contenere il riscaldamento globale entro 2 gradi dai livelli pre-industriali, e se possibile entro 1,5 gradi (già oggi siamo arrivati a +1 grado);
  • stabilire ed attuare obiettivi di riduzione dei gas serra prodotti dalle attività umane (anidride carbonica in primo luogo, ma anche metano e refrigeranti Hfc);
  • siano previste verifiche quinquennali degli impegni presi, a partire dal 2023;
  • aiutare finanziariamente i paesi più poveri con un ”Green Climate Fund da 100 miliardi di dollari, da istituire entro il 2020. L’Italia stabilì di contribuire con 50 milioni di euro all’anno.
  • dal 1995 la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) organizza ogni anno una Conferenza delle parti (Cop) fra i paesi aderenti. È lì che si discute fra i Paesi della situazione del riscaldamento globale e si decidono i provvedimenti da prendere. La novità politica dell’Accordo di Parigi è stata l’adesione dei maggiori produttori di gas serra, gli Stati Uniti e la Cina, che in passato avevano rifiutato di aderire al protocollo di Kyoto per non ostacolare la loro crescita economica.

A che punto siamo? Pensiamo che siamo ancora al punto di partenza, specie dopo che Trump ha ritirato l’accettazione statunitense dall’accordo, mentre Biden non si è ancora espresso.

E questo riguarda gli aspetti operativi dello sfruttamento delle risorse naturali. Ma intorno ad esse si muove pesantemente anche la finanza, che ha già visto questa nuova tendenza e, cercando di prevenire gli eventi, si è mossa per garantire qualcosa che “sappia di protettivo per la natura”. Nasce così il concetto di economia circolare e di ESG.

Sull’economia circolare vediamo cosa dice il Parlamento Europeo in una nota del 2 dicembre 2015, aggiornata il 16 febbraio 2021:

Nell’Unione Europea si producono ogni anno più di 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti. L’UE sta aggiornando la legislazione sulla gestione dei rifiuti per promuovere la transizione verso un’economia circolare, in alternativa all’attuale modello economico lineare.

A marzo 2020 la Commissione europea ha presentato, sotto il Green Deal Europeo, in linea con la proposta per la nuova strategia industriale, il piano d’azione per una nuova economia circolare che includa proposte sulla progettazione di prodotti più sostenibili, sulla riduzione dei rifiuti e sul dare più potere ai cittadini, come per esempio attraverso il “diritto alla riparazione”. I settori ad alta intensità di risorse, come elettronica e tecnologie dell’informazione e della comunicazione, plastiche, tessile e costruzioni, godono di specifica attenzione.

A febbraio 2021 il Parlamento europeo ha votato per il nuovo piano d’azione per l’economia circolare, chiedendo misure aggiuntive per raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050. Sono anche incluse norme più severe sul riciclo e obiettivi vincolanti per il 2030 sull’uso e l’impronta ecologica dei materiali

Che cos’è l’economia circolare?

L’economia circolare è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile.

In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. Così si possono continuamente riutilizzare all’interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore.

I principi dell’economia circolare contrastano con il tradizionale modello economico lineare, fondato invece sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”. Il modello economico tradizionale dipende dalla disponibilità di grandi quantità di materiali e energia facilmente reperibili e a basso prezzo.

Il Parlamento europeo chiede l’adozione di misure anche contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, strategia propria del modello economico lineare.

Perchè è necessaria una transizione verso l’economia circolare?

Ci troviamo di fronte a un aumento della domanda di materie prime e allo stesso tempo a una scarsità delle risorse: molte delle materie prime e delle risorse essenziali per l’economia sono limitate, ma la popolazione mondiale continua a crescere e di conseguenza aumenta anche la richiesta di tali risorse finite.

Questo bisogno di materie prime crea una dipendenza verso altri paesi: alcuni stati membri dell’UE dipendono da altri paesi per quanto riguarda l’approvvigionamento.

Non dobbiamo poi dimenticare l’impatto sul clima: i processi di estrazione e utilizzo delle materie prime producono un grande impatto sull’ambiente e aumentano il consumo di energia e le emissioni di anidride carbonica (CO2). Un uso più razionale delle materie prime può contribuire a diminuire le emissioni di CO2.

Quali sono i vantaggi?

Grazie a misure come prevenzione dei rifiuti, ecodesign e riutilizzo dei materiali, le imprese europee otterrebbero un risparmio e ridurrebbero nel contempo le emissioni totali annue di gas serra. Al momento la produzione dei materiali che utilizziamo ogni giorno è responsabile del 45% delle emissioni di CO2.

La transizione verso un’economia più circolare può portare numerosi vantaggi, tra cui:

  • Riduzione della pressione sull’ambiente
  • Più sicurezza circa la disponibilità di materie prime
  • Aumento della competitività
  • Impulso all’innovazione e alla crescita economica (un aumento del PIL dello 0,5%)
  • Incremento dell’occupazione – si stima che nell’UE grazie all’economia circolare potrebbero esserci 700.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030.

Con l’economia circolare i consumatori potranno avere anche prodotti più durevoli e innovativi in grado di far risparmiare e migliorare la qualità della vita. Ad esempio, ricondizionare i veicoli commerciali leggeri anziché riciclarli potrebbe portare a un risparmio di materiale per 6,4 miliardi di euro all’anno (circa il 15% della spesa per materiali) e 140 milioni di euro in costi energetici, con una riduzione delle emissioni di gas serra pari a 6,3 milioni di tonnellate.

ESG

La seconda faccia della stessa medaglia, è rappresentata dall’approccio ESG, vale a dire da un approccio di valutazione economico differente che, oltre ai meri valori reddituali, consideri anche l’impatto ambientale, sociale e di governance derivante dalla produzione di un’impresa. In teoria cresce il numero degli investitori che guardano con attenzione al rispetto di questi principi; in pratica, per ora, la convenienza per essi, come portatori di capitale, è ancora tutta da dimostrare; intendiamoci, sulla carta nessuno può dirsi contrario al rispetto delle regole etiche nello sviluppo economico generale, specie dopo aver visto le conseguenze che un diffuso ipercapitalismo sta avendo sulla natura. Quello che ancora non è chiaro a nessuno è il costo del rispetto delle regole. Ora, si legge da più parti che sta aumentando la redditività delle imprese che operano nel rispetto delle regole etiche sintetizzate dalla sigla ESG, però pensiamo che occorrerà ancora un po’ di tempo perché questa dichiarata sensazione possa prendere corpo e guidare un vero cambio strutturale.

Anche in questo caso ci facciamo aiutare da chi ha già identificato e presentato l’argomento. Interessante è un articolo edito da QuiFinanza, uscito il 22 gennaio 2021.

Cerchiamo, però, di capire il significato del fenomeno. Cominciamo con la sigla. Le tre lettere dell’acronimo ESG si riferiscono alle parole inglesi:

    Environmental, che riguarda l’impatto su ambiente e territorio;

    Social, che comprende invece le iniziative con impatto sociale;

    Governance, che riguarda aspetti più interni all’azienda e alla sua amministrazione.

che servono per identificare le caratteristiche di impatto (ambientale, sociale e aziendale) che la gestione dell’impresa determina.

Tenere in considerazione questi aspetti, in maniera più o meno approfondita, permette di misurare le capacità delle imprese nell’aderire a quegli standard che sono ormai considerati necessari per uno sviluppo sostenibile ed etico.

Questi criteri consentono, inoltre, di formulare una classifica delle aziende che meglio si adattano rispettano questi tre parametri. Le aziende non si valutano più semplicemente osservando la loro capacità di produrre risultati economici positivi attraverso la loro attività tipica, ma anche nel produrre risultati etici, come l’inclusione sociale o la protezione dell’ambiente.

Environmental

Il criterio “Environmental” si riferisce a numerosi parametri come l’attenzione al cambiamento climatico, alla sicurezza alimentare, il contenimento delle emissioni di anidride carbonica o ai tentativi di ridurre l’utilizzo delle risorse naturali.

Comprende quindi tutte le iniziative e le azioni che hanno l’obiettivo di ridurre il più possibile l’impatto che le aziende hanno sull’ambiente e sul territorio.

Social

Per quanto riguarda invece il criterio “Social”, questo comprende tutte le decisioni e le iniziative aziendali che hanno un impatto sociale. Figurano quindi elementi come:

  • il rispetto dei diritti umani;
  • l’attenzione alle condizioni di lavoro;
  • la parità di genere;
  • il rifiuto di tutte le forme di discriminazione.

A questi elementi si aggiunge poi la possibilità delle aziende di contribuire ad aumentare il benessere degli abitanti del territorio in cui l’impresa si trova, attraverso varie iniziative o eventi. I criteri social sono sicuramente quelli più facilmente osservabili anche da parte di membri esterni all’organizzazione e il loro rispetto facilita lo sviluppo di un’immagine positiva dell’azienda

Governance

L’ultimo criterio dell’ESG è quello che comprende le responsabilità di “Governance” delle aziende. Questa riguarda il rispetto della meritocrazia, politiche di diversità nella composizione del consiglio di amministrazione, il contrasto ad ogni forma di corruzione, l’etica retributiva.

La “Governance” inoltre è particolarmente importante perché è su questa che gli osservatori esterni valutano l’identità aziendale. La Governance permette di definire se le azioni e le iniziative di tipo sostenibile adottate dall’azienda si accompagnano anche a forme organizzative nei luoghi di lavoro ugualmente vicina ai principi.

Dati questi criteri, è possibile costruire, mantenere e diffondere un rating che cerca di “mettere in classifica” le aziende e le loro capacità.

Il rating di sostenibilità o rating ESG fornisce quindi una valutazione sintetica che assicura la validità di un’azienda, di un’impresa o di un’associazione per quel che riguarda il suo impegno in ambito sociale, ambientale e di governance.

Il rating di sostenibilità viene elaborato dalle varie agenzie specializzate nella raccolta e nell’analisi di dati sugli aspetti che coinvolgono ambiente, impatto sociale e governance. I dati raccolti provengono da svariate fonti, interne ed esterne, come: i documenti aziendali, i dati forniti dalle autorità; le informazioni pubbliche; i dati forniti da sindacati e ONG.

Il rating ESG rappresenta anche un indicatore importante per gli investitori, perché permette loro di avere una comprensione più approfondita dell’impresa e della sua sostenibilità. Anche per gli investitori, quindi, l’interesse si sposta dalle imprese capaci di generare semplicemente rendite economiche a quelle in grado di generare valore anche verso la società e verso l’ambiente.

L’interesse verso i parametri e i criteri ESG sta diventando sempre più popolare tra le aziende, che considerano questi parametri anche un modo per ottenere un’opinione positiva da parte del pubblico esterno. Le strategie ESG, infatti, garantiscono un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

Azioni di questo tipo incidono notevolmente sulle scelte di acquisto dei consumatori, in quanto la sensibilità dei cittadini e dei consumatori ormai influenza fortemente gli acquisti e la fiducia in un prodotto o brand specifico. Anche l’attività di comunicazione di queste aziende è fortemente mutata in questo periodo, per esprimere la loro vicinanza e il loro interesse ai temi di sostenibilità e soprattutto al problema dell’impatto ambientale del processo produttivo. Le scelte e gli investimenti pensati per l’ambiente e per la società sono diventati il punto focale dell’attività di comunicazione di queste imprese, lasciando quasi in secondo piano qualità e prezzo del prodotto.

Per definire un investimento responsabile e sostenibile questo deve creare valore sia per l’investitore che per la società che, attraverso una strategia di medio lungo periodo, integri l’analisi finanziaria con quella ESG.

L’attenzione verso i parametri di tipo ESG cresce sempre di più e sempre più velocemente e azioni a favore dei parametri Environmental, Social e Governance vengono generalmente premiate sia dagli investitori che dai consumatori, ma ovviamente iniziative di questo tipo non sono totalmente prive di rischi.

L’attenzione verso i parametri ESG, naturalmente, comporta scelte strategiche nuove per le aziende e un approccio nuovo, ancora in evoluzione. I fattori che caratterizzano questo interesse in favore dei parametri ESG sono:

  • prima di tutto la consapevolezza delle minacce associate ai cambiamenti climatici, Climate Change, e della necessità di dover ridurre in tutti i modi i propri consumi, sia nelle scelte produttive che in quelle distributive della propria azienda;
  • la riduzione degli sprechi e una migliore gestione delle risorse. Questo, oltre ad essere un elemento importante per la sostenibilità ambientale della propria azienda, comporta anche dei benefici economici considerevoli nel breve periodo. Una scelta strategica, quindi, di duplice rilevanza;
  • le scelte dei consumatori si rivolgono ormai verso prodotti e servizi in grado di garantire e di comunicare impegno sociale e politiche di riduzione dell’impatto ambientale. Anche l’identità dell’impresa ne trae un vantaggio considerevole, in quanto il consenso presso i consumatori e i clienti aumenta.

La definizione delle scelte strategiche di un’azienda è sempre il risultato di una serie di vari fattori e obiettivi insieme alla consapevolezza dei rischi legati ad un cambiamento così significativo, sia in termini di profitto, ma anche di identità all’interno e all’esterno dell’azienda.

L’implementazione di nuovi modelli organizzativi e produttivi e i processi di transizione che ne seguono, comportano nelle imprese anche dei rischi da non sottovalutare. La gestione del cambiamento, infatti, è da tenere fortemente in considerazione. Non tutte le imprese riescono subito ad adattarsi ai criteri “Enviromental, Social, Governance” e anzi nel tentativo di adeguarsi a questi principi finiscono per ottenere risultati contrari, perdendo ad esempio profitti considerevoli o allontanando i consumatori con politiche di comunicazione errate.

Durante la gestione di queste nuove iniziative le aziende devono considerare le risorse di cui dispongono e che possono mettere in campo e soprattutto le abilità dei propri dipendenti. Inoltre, vi sono anche rischi da punto di vista reputazionale; a seconda dell’azienda infatti vanno avanzate iniziative in linea con la propria identità aziendale e di prodotto, senza allontanarsi troppo dalla propria identità aziendale. Le scelte e gli investimenti devono sicuramente comportare un vantaggio per l’ambiente, l’ambito sociale e di governance ma devono anche essere in grado di valorizzare il proprio prodotto ed essere comprese dai clienti. Un’attenta ed elaborata comunicazione è la chiave per la buona riuscita della propria strategia, che possa portare profitto quindi sia all’impresa che all’ambiente e alla società.

MC Advisory

Da un lavoro specifico effettuato da MC Advisory SNR possiamo estrarre lo schema sinottico degli accordi internazionali riguardanti i temi della sostenibilità: