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MA FINO A QUANDO?

La sanità e le sue disuguaglianze

Parlare di sanità in un periodo come quello corrente appare problematico e velleitario, ancor più se vogliamo far emergere le disuguaglianze esistenti; ci proviamo, però, ugualmente, soprattutto in coerenza con un processo metodologico di analisi e per rispetto di tutti coloro che dalla “malasanità” sono stati colpiti.

Prima di partire una precisazione è d’obbligo: chiariamo bene la differenza che esiste tra gli argomenti e i numeri relativi alla sanità e quelli relativi alla salute. Se parlassimo di salute, i temi si concentrerebbero su indicatori riguardanti, appunto, la salute nazionale, quali la speranza di vita alla nascita, l’indice di salute mentale, la mortalità evitabile, la mortalità infantile, la mortalità per incidenti stradati, la mortalità per tumori, la mortalità per demenze e malattie del sistema nervoso a altro ancora, espresso in modo assai completo nel capitolo Salute del BES 2020 (Istat, Rapporto BES 2020, Il benessere equo e sostenibile in Italia, capitolo 1, Salute, da pagine 39 a pagina 56). Questi argomenti, però, per quanto di per sé interessanti, poco avrebbero in comune con l’obiettivo di questo lavoro, concentrato sull’analisi delle disuguaglianze.

Noi abbiamo bisogno, invece, di ragionare sull’offerta, pubblica o privata che sia, di strutture e personale finalizzate alla cura della salute; e, da qui, il concetto e gli argomenti riguardanti la sanità, espressi molto bene sempre nel BES 2020, ma nel capitolo dedicato alla Qualità dei servizi.

Strutture sanitarie

Per quanto riguarda le strutture sanitarie, vediamo la situazione degli istituti di cura, dove il numero si è ridotto negli 5 anni

Strutture sanitarie e socio-sanitarie residenziali e semiresidenziali

Emigrazione Ospedaliera

Appare, quindi, naturale che esista una Emigrazione Ospedaliera, tesa alla ricerca di maggiore facilità di accesso alle strutture sanitarie, ma anche alla ricerca di qualità del servizio che, come vedremo successivamente, premia soprattutto l’Italia settentrionale. L’emigrazione ospedaliera è il risultato di anni di ghettizzazione, di investimenti scarsi e di corruzione dilagante, che ha sempre più impoverito un territorio che viene volutamente depauperato da parte delle iniziative private e sfruttato dalla malavita e dal malaffare.

Il valore è dato dal rapporto percentuale tra le dimissioni ospedaliere effettuate in regioni diverse da quelle di residenza e il totale delle dimissioni dei residenti nella regione. I dati si riferiscono ai soli ricoveri ospedalieri in regime ordinario per “acuti” (sono esclusi i ricoveri dei reparti di “unità spinale”, “recupero e riabilitazione funzionale”, “neuro-riabilitazione” e “lungodegenti”).

Posti letto per specialità ad elevata assistenza

Se volgiamo lo sguardo verso i Posti letto per specialità ad elevata assistenza, vale a dire la cardiochirurgia pediatrica, la cardiochirurgia, le malattie infettive tropicali, le unità spinali, la neurochirurgia, la psichiatria, la nefrologia, l’emodialisi, la neonatologia e la neurochirurgia pediatrica, possiamo vedere come questi reparti, sebbene abbiano assunto un peso maggiore nell’attività ospedaliera, siano calati di numero (-23% rispetto al dato del 2004).

La “volata” al ribasso è guidata, questa volta, dall’Italia centrale (-36%, che ha determinato il passaggio dall’area geografica migliore di 15 anni fa all’area geografica peggiore attuale), dall’Italia settentrionale (-20%) e dall’Italia meridionale (-14%).

La domanda che ci si pone è “chi ha voluto guadagnarci dal taglio dei posti letto?”, ma anche “chi ha voluto speculare sulla salute di una nazione intera?”

Anziani trattati in assistenza domiciliare integrata

Rinuncia a prestazioni sanitarie

La Rinuncia a prestazioni sanitarie è intesa come la percentuale delle persone che hanno rinunciato a qualche visita specialistica o a un esame diagnostico (es. radiografie, ecografie, risonanza magnetica, TAC, ecodoppler o altro tipo di accertamento) pur avendone bisogno, a causa di uno dei seguenti motivi: non poteva pagarla, costava troppo; scomodità (struttura lontana, mancanza di trasporti, orari scomodi); lunga lista d’attesa.

I dati del 2020 mostrano, senza ombra di dubbio, che l’avvento e il perdurare della pandemia Covid abbia contribuito fortemente, per le tante ragioni che sono emerse in questi mesi, a procrastinare (o a essere costretti a procrastinare) visite specialistiche o esami diagnostici. Il procrastinare nel tempo delle visite di controllo o delle visite specialistiche ha comportato un peggioramento della salute generale; quindi persone che avrebbero potuto migliorare o guarire o aver dei risultati diagnostici in tempo si sono ritrovati con problemi di salute molto gravi, dovuti prevalentemente alla mancata tempestività degli interventi (curativi o operatori essi siano).

Personale sanitario

Più chiari e capaci di farci vedere l’esatta dimensione del fenomeno sono i rapporti tra medici e popolazione. I dati sono espressi per 1.000 abitanti:

Possiamo notare che i medici sono attualmente in Italia 4,1 per 1.000 abitanti, in aumento negli ultimi 5 anni, dopo il punto di minimo a 3,84 del 2015; esistono chiare differenze tra aree geografiche. Inoltre il rapporto medici specialisti per 1.000 abitanti è cresciuto ovunque (mediamente del 3,85%, ma con punte del 5%), mentre è calato ovunque il rapporto medici generici per abitante (-2,2% in media, ma con punte di -3,1%) a dimostrazione della capacità di copertura (limitata forse, ma in consolidamento) degli specialisti e della continua perdita di ruolo dei medici di famiglia.

I dati legati alla diminuzione dei medici generici hanno procurato parecchi disagi; si pensi che in alcune città ci sono interi quartieri che non hanno più un numero adeguato di medici di base. Visto che la popolazione continua ad invecchiare ci si chiede come mai non si sia voluto intervenire tempestivamente sulla riorganizzazione strutturale della medicina di base, lasciando degradare l’intera comunità, ovvero lasciandola in mano prevalente, se non esclusiva, alla medicina privata.

Medici di medicina generale con un numero di assistiti oltre la soglia

Le difficoltà con cui devono lavorare i medici di famiglia vengono enfatizzate se osserviamo il numero dei medici di medicina generale (appunto, i medici di famiglia), con un numero di assistiti oltre la soglia. Come ben sappiamo, ciascun medico di famiglie ha una soglia di 1.500 assistiti, prevista dal contratto dei medici di medicina generale. Oltre ad essere stati burocratizzati in maniera spaventosa, tanto da lasciar loro poco tempo e spazio per occuparsi di medicina, sono spesso assillati da richieste di persone che, alla ricerca di medici efficienti ed efficaci, cercano e riescono a farsi prendere in carico da medici già arrivati al numero limite di assistiti. Il problema non è tanto che ci siano medici con più di 1.500 assistiti, bensì che sono tanti e il loro numero segnala fortemente, senza ombra di dubbio, la mancanza strutturale di medici che possano seguire correttamente i loro assistiti.

Su questo argomento la serie storica è più lunga e ci consente un doppio livello di valutazione: innanzi tutto la percentuale dei medici di famiglia che hanno un numero di assistiti oltre le 1.500 unità era già alto nel 2004 (mediamente un medico ogni sei, un po’ meglio nel centro Italia e un po’ peggio al nord), ma la percentuale del 2018 è diventata aberrante: stiamo parlando di almeno un terzo dei medici in Italia, con punte quasi del 50% al Nord. Dal grafico della figura 189 vediamo chiaramente quanto sia costantemente in crescita il fenomeno in tutta Italia, in cui solo il Mezzogiorno è riuscito a contenerne la spinta. Il tasso di variazione è stato impressionante: stiamo parlando di un tasso di crescita superiore al 100% in Italia nel suo insieme, il che lascia veramente perplessi sulla qualità del lavoro che i medici di base riescano a svolgere, essendo essi sotto pressione costante sia da parte degli assistiti, sia da parte delle strutture sanitarie dalle quali dipendono, che hanno scaricato su di essi una serie molto importante di incombenza burocratiche e di false verifiche e controlli che non dovrebbero competere loro.

È chiaro che, in queste condizioni appare coerente l’uscita di Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del primo governo Conte, il 25 agosto 2019 al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, che disse, a proposito del carico di lavoro dei medici di base e della loro strutturale insufficienza numerica: “Caro Speranza, è vero, mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base? Senza offesa per i medici di base anche qui presenti in sala. Nel mio piccolo paese vanno ovviamente per fare le ricette mediche, ma quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su internet, si fanno fare le autoprescrizioni su internet, cercano lo specialista. Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì”.

Infermieri e Ostetriche

Per una valutazione sulla quantità e qualità della struttura medica e paramedica nazionale pensiamo sia interessante riprendere integralmente quanto esposto da BES 2020: “Un fattore centrale dell’offerta sanitaria è rappresentato dal personale medico e infermieristico, infatti medici (16,6%) e infermieri (41,1%), insieme, rappresentano più della metà degli occupati del settore sanitario.

Nel 2019 in Italia, i medici specialistici e di base e i pediatri di libera scelta che svolgono la loro attività nel sistema sanitario pubblico e privato sono, in totale, circa 241 mila. Con 4 medici ogni 1.000 residenti, il nostro Paese si colloca ai primi posti in Europa, con una dotazione analoga a quella della Repubblica Ceca, dell’Olanda, della Bulgaria, leggermente inferiore a quella della Germania, ma superiore a Spagna, Francia e Regno Unito. La situazione del personale infermieristico non è altrettanto favorevole, infatti l’Italia, con circa 6 infermieri ogni 1.000 residenti, meno della metà della Germania, si trova al quartultimo posto prima solo di Bulgaria, Lettonia e Grecia. Nonostante il tasso relativamente alto, nel nostro Paese i medici sono mediamente più “anziani” rispetto ad altri paesi, anche e causa di alcune scelte degli ultimi anni, come, ad esempio, il numero chiuso nell’accesso ai corsi di laurea e le politiche di blocco del turn over nella sanità pubblica. L’età media dei medici in Italia è di 52,5 anni e un medico su due ha più di 55 anni; anche tra gli infermieri l’età media è elevata, pari a 48,2 anni e uno su quattro ha più di 55 anni.”

Considerando, infine, la situazione e l’offerta delle strutture sanitarie e del personale sanitario impiegato, parlare di disuguaglianze sembra abbastanza facile. L’unica differenza è che esistono disuguaglianze su più fronti.

Non è equa, così, la ripartizione delle risorse tra pubblico e privato e tra nord e sud, non sono eque le opportunità che vengono offerte ai candidati medici, sia specialistici sia generici essi siano, non è equo il costo che l’utente deve sostenere, ma neanche i tempi di attesa e la qualità dei servizi ricevuti. A volte non sono eque nemmeno le diagnosi o le prognosi che i “pazienti” ricevono dalla struttura pubblica o privata essa sia.

I cittadini italiani pagano lo scotto non tanto dei tagli della spesa pubblica indirizzati alla sanità (studi specifici condotti dall’OCPI indicano quasi il contrario), quanto della cattiva gestione e della spinta verso una privatizzazione di un servizio essenziale come quello della sanità.